Vaccini e brevetti. La formula giusta per proteggere tutti
Con buon senso e preveggenza si può salvare il libero mercato che finanzia la scienza e la salute del mondo intero
Modesta proposta. Su Raiplay ognuno di noi può rivedere un documento di straordinaria attualità. È l'intervista che Enzo Biagi fece nel 1966 ad Albert Sabin, lo scopritore del vaccino contro la poliomielite. Forse l'intervista di cui Biagi andava più fiero. Quella che amò di più. Se la si trasmettesse all'inizio di un telegiornale, come se fosse stata fatta pochi giorni prima, non si commetterebbe un falso storico. Si darebbe invece un grande contributo alla comprensione delle magre vicende che angosciano la nostra vita contemporanea. Nelle parole di Sabin c'è tutto ciò che serve per comprendere meglio la questione vaccini oltre a una incommensurabile lezione di civismo. La bellezza umanitaria della missione scientifica, non priva di rischi, la consapevolezza della cittadinanza, la riconoscenza di un immigrato ebreo polacco nei confronti del Paese (gli Stati Uniti) che lo accolse, lo fece studiare, finanziò le sue ricerche, ma soprattutto la soddisfazione di uno scienziato per aver salvato tante vite. Prima del vaccino (che sperimentò sulle sue figlie) moriva tra il 5 e il 10 per cento dei bimbi colpiti, ma molti erano condannati a una vita da storpi (e chi ha una certa età se lo ricorda bene). Bastò un poco di zucchero (e la pillola va giù cantava Mary Poppins) per mutare il destino di intere generazioni e combattere la polio in tutto il mondo. Biagi rivide Sabin nel 1992 e gli chiese perché non avesse mai voluto brevettare la sua scoperta. «Per modestia o per orgoglio, professore?». Lo scienziato rispose accennando un sorriso: voleva solo che il vaccino venisse distribuito su vasta scala e costasse poco, assicurando però un giusto profitto all'azienda produttrice. Sabin non aveva mai pensato di arricchirsi. «Io il necessario con cui vivere ce l'ho».
Mondovisione
Forse questo colloquio, a tratti persino commovente, dovrebbe essere fatto vedere anche nei consessi internazionali in cui si deciderà come produrre e distribuire i vaccini anti Covid che per il momento sono arrivati con il contagocce nelle aree più povere del pianeta, là dove sarebbe un lusso incomprensibile rifiutare una somministrazione per un rischio statisticamente irrilevante. II programma internazionale Covax, per vaccinare i Paesi più poveri, stenta a decollare. Papa Francesco parla della necessità di una internazionalizzazione dei vaccini, bene comune dell'umanità. Si moltiplicano le prese di posizione affinché vengano sospesi i diritti di proprietà nel commercio internazionale. Non lo esclude— come ha scritto Lucia Capuzzi su Avvenire — l'articolo 9 del regolamento della World Trade Organization. Oltre cento Paesi hanno sottoscritto un appello in tal senso promosso da Sud Africa e India. L'Organizzazione del commercio mondiale ha escluso il ricorso all'articolo 9 in marzo, ma si riunirà nuovamente il 6 giugno a Ginevra. Tra i Nobel favorevoli: Muhammad Yunus e Joseph Stiglitz. Gli Stati Uniti e le grandi case farmaceutiche, che finanziano Intellectual property owners association, si oppongono. Se n'è discusso anche negli incontri (a distanza) primaverili del Fondo monetario dove è balenata l'idea di emettere diritti speciali di prelievo (la moneta dell'Fmi) per sostenere i Paesi più poveri nell'approvvigionamento dei medicinali. II Papa in un messaggio ha esortato a non far vincere le leggi del mercato sul diritto alla salute.
Da noi
La brevettabilità dei farmaci in Italia venne riconosciuta con una sentenza della Corte Costituzionale del 20 marzo 1978. II problema di consentire la produzione o l'importazione di vaccini senza il consenso dei titolari dei brevetti non può che essere affrontato a livello europeo o internazionale. Ma è significativo dare uno sguardo al diritto italiano in materia. «Sono diverse le norme che prevedono deroghe o eccezioni alla esclusiva brevettuale per motivi di interesse pubblico — precisa Giuseppe Sena, professore emerito di Diritto industriale all'Università degli Studi di Milano — ed il trattato, noto come Trips (Agreement on Trade related aspects of intellectual property rights ), promosso nell'ambito del Wto, ammette all'articolo 31 la possibilità degli Stati membri di riconoscere l'uso di un brevetto senza il consenso del suo proprietario. Sembra interessante ricordare qui le previsioni in tema di espropriazione per ragioni di pubblica utilità (articoli 141,142 e 143 Codice della proprietà industriale), che appaiono pertinenti nella situazione di emergenza sanitaria che stiamo vivendo. Tali norme stabiliscono che i diritti di brevetto possono essere espropriati dallo Stato: l'espropriazione viene disposta per Decreto del Presidente della Repubblica nel quale è fissata un'indennità per il titolare del diritto di proprietà industriale. Un'altra norma che si deve ricordare su questo argomento è l'art. 115 Codice della proprietà industriale che prevede la concessione di licenze obbligatorie non esclusive per motivi di interesse pubblico». Dunque si tratta di agire. E in fretta. Gli economisti Olivier Blanchard e Jean Pisani-Ferry sostengono che senza un piano di vaccinazione globale, producendo su vasta scala, non vi sarà mai una vera ripresa e si allargheranno le disuguaglianze. Ma quello che stona nel dibattito affannato sui brevetti (così come avviene, su un altro piano, per il copyright) è la negazione ideologica della necessità di proteggere i diritti di proprietà intellettuale ed i brevetti, come fossero un ostacolo al benessere, un'ingiustizia inflitta all'umanità più sofferente. Le esagerazioni non mancano, così come eccessive protezioni monopolistiche e troppo pingui guadagni. Ma senza brevetti (e le contestate Big Pharma) non avremmo avuto a disposizione così tanti vaccini. Nello stesso tempo, è altrettanto vero che in casi di emergenza collettiva, eccezioni e deroghe, oltre a internazionalizzare le cure, rafforzano le basi giuridiche (e l'accettabilità sociale) di un diritto indispensabile per il progresso. «Se non vi fossero i brevetti — sostiene Sergio Dompé, presidente dell'omonimo gruppo farmaceutico — non vi sarebbe ricerca, né interesse a farla, né capitali pubblici o privati disposti a rischiare di svanire del tutto. Per tanti anni investire nella tecnologia Rna — quella dei vaccini Pfizer BioNTech e Moderna — è stato considerato del tutto temerario. II brevetto riconosce ingegno e lavoro ed è un modo per rendere pubblico qualcosa che è privato, segreto, condividere ricerche allo scopo di migliorarle. Quando la Repubblica di Venezia, nel 1474, istituì la prima forma di brevetti, lo fece per attirar le meglio intelligenze. In questa pandemia, grazie alle industrie, alle grandi multinazionali, al coraggio del progresso, abbiamo avuto vaccini efficaci in pochi mesi. Mai si era vista una collaborazione così intensa fra case farmaceutiche rivali. Le deroghe sono previste dagli accordi internazionali, ma attenti a non creare pericolosi anticorpi all'innovazione. La realizzazione di un vaccino è già di per sé un prodotto internazionale perché coinvolge mediamente circa 200 componenti prodotte in almeno 15 Paesi. E di questo dobbiamo ringraziare l'esistenza delle multinazionali senza le quali le ricerche dell'università di Oxford non si sarebbero mai tradotte, in così breve tempo, in prodotti disponibili in tutto il mondo». I governi, in alcuni casi (Stati Uniti e Regno Unito soprattutto) sono stati lungimiranti e generosi di finanziamenti pubblici. Hanno scommesso come investitori, anche se in parte come anticipo sulle forniture. Hanno rischiato i soldi dei contribuenti. Dunque è ancora più giusto antepone la salute pubblica al diritto privato, alla difesa dei brevetti. Forse con buon senso e preve :enza si possono tutelare entrambi, senza frenare la ricerca futura e le «vituperate» le : i di mercato. Ovvero la salvaguardia della salute nostra e delle prossime generazioni.
Senza proprietà intellettuale non ci sarebbe la ricerca che ha permesso, anche con i soldi dei contribuenti, di finalizzare in tempi brevissimi l'antidoto al virus. Ma adesso è lecito domandarsi in che misura fare tesoro anche della lezione di Albert Sabin, lo scopritore del vaccino antipolio che non registrò il farmaco per permetterne la più ampia diffusione.