Supercomputer, anche l'Italia può competere
Era dai tempi dell'Olivetti che sfidava l'Ibm anche grazie al talento dell'italo-cinese Mario Tchou — scomparso prematuramente in un incidente sulla Milano Torino — che l'Italia e i computer non andavano così d'accordo. Così, se la notizia che un farmaco generico possa essere efficace per contenere la replicazione virale del Sars-Cov-2 è ottima, il fatto che la selezione della molecola sia avvenuta tramite il software Dompé e il supercalcolo del centro bolognese del Cineca lo è altrettanto. Per diversi motivi: la prova muscolare informatica può definirsi internazionale. Lo dimostra la parallela discesa in campo del più potente supercomputer al mondo, The Summit, ingaggiato dagli Usa in questa lotta al virus. La seconda motivazione è storica: l'intuizione di usare il supercalcolo sulle materie scientifiche è stata di Enrico Fermi e risale al periodo in cui il premio Nobel per la Fisica lavorava al progetto «Manhattan» durante la Seconda guerra mondiale. Non è un caso che la sede degli esperimenti di Oak Ridge, al numero i della Bethel Valley Road, dove Fermi era chiamato per ovvi motivi di segretezza con il soprannome «the farmer», sia la stessa dove oggi proprio The Summit macina 170 milioni di miliardi di operazioni con virgola mobile al secondo. In Italia stiamo costruendo il supercomputer Leonardo con fondi europei. Con 270 petaflops sarà il quinto supercomputer al mondo con finalità scientifiche. Certo, la tecnologia non è italiana, come ai tempi dell'Olivetti. Questo e un punto sul quale l'Europa ha grandi ambizioni ma, per ora, scarso abbrivio. Ma il punto è che quei semi piantati allora ci permettono oggi di avere il talento e la professionalità per far parte della nuova Exa-economy basata sul supercalcolo, di cui i campioni sono Usa e Cina. La crescita della scienza, dell'industria e dei posti di lavoro oggi passa da qui. Prima ci crediamo (e investiamo) e prima torneremo a competere. Come allora.