L'Unione biomedica d'Europa

13/06/2021
Tra le lezioni del Covid, ce n'è una fondamentale: la necessità di un coordinamento internazionale della ricerca e delle politiche sanitarie per non (ri)trovarsi impreparati di fronte a un altro evento catastrofico come la pandemia. Per questo Massimo Florio, economista, propone l'istituzione di un'organizzazione legata all'Ue che coinvolga governi, scienziati e industria. Ne discutono con lui Sergio Dompé, imprenditore farmaceutico, e Giuseppe Remuzzi, direttore dell'Istituto «Mario Negri»

Dall'esperienza della pandemia emerge la necessità di una presenza pubblica forte in campo biomedico a livello europeo. Lo sostiene l'economista Massimo Florio, professore di Scienza delle Finanze presso l'Università degli Studi di Milano, nel libro La privatizzazione della conoscenza, in uscita il 7 ottobre per Laterza. Abbiamo invitato a discuterne con lui Sergio Dompé, presidente della Dompé farmaceutici, e Giuseppe Remuzzi, direttore dell'Istituto di ricerche farmacologiche «Mario Negri».

Come mal iI Covid-19 ci ha colti di sorpresa?

GIUSEPPE REMUZZI — Paesi come l'Italia non avevano un serio piano pandemico per fare fronte a un evento inaspettato. Ma anche Stati come gli Usa, che ne erano dotati, hanno avuto gravissimi problemi. A reagire meglio sono stati i Paesi dell'Asia, perché avevano sperimentato le minacce dell'influenza suina e di quella aviaria, dunque erano preparati. Certo, la Cina è una dittatura che può imporre alla popolazione misure drastiche, ma anche Taiwan, Singapore, Australia hanno avuto poche vittime. Essenziale è coinvolgere non solo le strutture sanitarie, ma l'intera società nella prevenzione, come propone un recente documento dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms). D'altronde già il 24 gennaio 2020 la rivista «Lancet» aveva descritto con precisione le caratteristiche e i pericoli del Covid-19. II mondo occidentale, compresi illustri scienziati, ha trascurato quella pubblicazione, minimizzando il pericolo. C'era un buon margine di tempo per bloccare la diffusione del virus, in Italia ad esempio intervenendo d'urgenza fin dai primi di febbraio per isolare i focolai che stavano emergendo soprattutto al Nord. Ma non è stato fatto.

SERGIO DOMPÉ — Nella storia l'umanità è stata spesso colta di sorpresa da eventi di portata enorme che hanno travolto i dispositivi di sicurezza. Nel caso del Covid-19 è mancata la capacità di previsione e di gestione, non c'è stato coordinamento tra i diversi livelli territoriali interessati. Abbiamo bisogno di un'infrastruttura paragonabile all'esercito svizzero, che dispone di molti riservisti ben addestrati e pronti a intervenire in caso di emergenza. Bisogna predisporre le attrezzature (penso ai posti in terapia intensiva), ma anche il personale in grado di usarle. Non è un impegno da poco, perché c'è un problema di sostenibilità economica, quindi occorre ripensare e ridefinire l'intera organizzazione dei presidi medici. Partiamo comunque da un servizio sanitario nazionale che resta un baluardo di protezione sociale e ha retto anche in queste circostanze drammatiche.

II settore farmaceutico ha fatto la sua parte?

SERGIO DOMPÉ — La ricerca scientifica, collegata alla sperimentazione clinica, all'industria e alle istituzioni pubbliche, ha indubbiamente funzionato bene. Chi si sarebbe aspettato che in dieci mesi sarebbero arrivate le prime dosi di un vaccino ben funzionante e basato su una tecnologia nuova? E che in poco tempo ne avremmo avuti altri tre? E che avremmo vaccinato milioni e milioni di persone a soli 18 mesi dall'insorgenza della pandemia? È una scommessa che io non avrei mai fatto. Ora mi aspetto che i governi rendano strutturale lo sforzo sulla ricerca compiuto sul Covid per rivolgerlo a fronteggiare altre patologie letali che ci faranno adesso pagare prezzi ancora più salati del passato in termini di vittime, perché per più di un anno si sono rallentate diagnosi e cure, con effetti gravi che non tarderemo a constatare.

MASSIMO FLORIO — I segnali d'allarme per una pandemia non mancavano. La Sars è del novembre 2002, la Mers del settembre 2012. Ricordiamo l'inchiesta profetica di David Quammen e i moniti di Bill Gates. Eppure nel 2019 le venti maggiori compagnie farmaceutiche avevano circa 400 ricerche in corso su nuovi farmaci, di cui però soltanto 16 su coronavirus, perlopiù ancora in fase di laboratorio. E chiaro che le priorità dell'industria non corrispondevano a quelle segnalate da molti studiosi e dalla stessa Oms. È un disallineamento che riguarda anche gli scienziati. Dopo la Sars tra il 2002 e il 2005 uscirono circa duemila pubblicazioni relative a coronavirus e dintorni, poi sono crollate a un centinaio l'anno, quindi si sono impennate con il Covid-19, 600 in un anno. Uno studio dell'Oms mostra che, su 86 mila prodotti approvati dal1995,1148% riguarda il cancro, il 15 le malattie infettive, lo 0,5 le malattie tropicali neglette, lo 0,4 i patogeni considerati ad alto rischio dalla stessa Oms.

Che cosa ne dobbiamo dedurre?

MASSIMO FLORIO — Che da un lato ci sono le indicazioni degli organismi internazionali sui pericoli più gravi (come la resistenza dei batteri agli antibiotici), dall'altro le industrie farmaceutiche, società quotate in Borsa che finanziano i progetti sulla base del prevedibile ritorno finanziario da garantire agli azionisti. Purtroppo le peggiori emergenze in agguato non assicurano un elevato rendimento del capitale rispetto ad altri impieghi.

GIUSEPPE REMUZZI — Il primo punto è che nessun Paese può fare da solo. Bisogna immaginare un'agenzia internazionale, non necessariamente l'Oms, che pure svolge un lavoro utilissimo a vantaggio dei Paesi poveri, ma una struttura che metta al centro la scienza, generi conoscenze e dia indicazioni concrete. Bisogna fissare delle priorità, proteggere il sistema sanitario e le categorie fragili, ma senza trascurare le persone colpite da patologie diverse da quella pandemica. E occorre far confluire tutti i dati su una piattaforma sovranazionale per distribuire le forze in modo razionale ed evitare che siano il reddito o l'etnia a determinare chi vive e chi muore.

In effetti sta succedendo questo.

GIUSEPPE REMUZZI — Oggi solo lo 0,5% dei vaccini è a disposizione dei Paesi poveri. Ma se lasciamo circolare il virus in Africa, prima o poi ritornerà da noi, magari mutato e ancora più pericoloso. Bisogna pensare anche agli anziani, che non sono stati messi in sicurezza subito come sarebbe stato necessario, e agli adolescenti: per esempio credo che si debba vaccinare prioritariamente dai 16 anni in su, mentre i più piccoli corrono rischi minori. Sono questioni che possono essere affrontate efficacemente solo a livello sovranazionale.

SERGIO DOMPÉ — Ha ragione Remuzzi quando dice che i problemi vanno affrontati a livello internazionale, ma non attraverso l'Oms, che sul Covid-19 ha mostrato qualche crepa. Bisogna selezionare personale competente, mobilitare una massa critica di risorse, predisporre una capacità organizzativa adeguata. Già prima del Covid come gruppo Dompé avevamo creato con atenei e centri di ricerca una piattaforma di intelligenza artificiale sulle pandemie e l'Unione Europea ci ha chiesto di collaborare. Così abbiamo aggregato altri soggetti, per un totale di 18, e operiamo sotto il cappello dell'iniziativa europea Horizon 2020 per applicare l'intelligenza artificiale alla farmacologia in cerca di soluzioni innovative nella lotta al coronavirus. Devo dire che il rapporto con Bruxelles si è rivelato fruttuoso

È la strada da seguire?

SERGIO DOMPÉ — Sì, ma a tre condizioni. Occorre innanzitutto un'impostazione che garantisca il perseguimento di obiettivi condivisi e ben definiti. In secondo luogo bisogna agire a livello internazionale, ma con un'organizzazione snella: ho il terrore delle agenzie macchinose e burocratizzate. Infine serve la massima apertura a tutti gli operatori pubblici e privati: da imprenditore sono ben felice che esistano istituti d'eccellenza come il «Mario Negri» diretto da Remuzzi con cui confrontarmi. Occorre una visione integrata, per la quale il servizio sanitario nazionale può essere una grandissima risorsa, finora poco utilizzata, in quanto ci offre una banca dati omogenea quale punto di riferimento della ricerca clinica. Spero che il governo, grazie all'azione positiva della ministra della Ricerca Maria Cristina Messa, ci permetta di fare i necessari passi avanti. O ci svegliamo adesso, o rischiamo di perdere ancora posizioni nei riguardi dell'America e della Cina, come purtroppo avviene da anni all'Italia, ma anche all'Europa.

MASSIMO FLORIO — Nel libro propongo di istituire un'organizzazione legata all'Ue (l'ho chiamata Biomed Europa) che dovrebbe guardare ai prossimi 20-30 anni. Servono tre ingredienti: idee chiare dei governi; cooperazione tra la comunità scientifica e tutte le realtà del settore; tantissimi soldi. Ogni progetto di nuovo farmaco può costare in media intorno a un miliardo di euro. In America i National Institutes of Health (NIh), che dipendono dal governo federale, hanno un budget annuo di 41 miliardi di dollari, quaranta volte quello del Cerri, ed erogano 50 mila contributi all'anno per sostenere ricerche esterne, ma hanno anche propri laboratori con circa seimila addetti. Non si capisce come si è arrivati così rapidamente ai vaccini se non si considera che Barda, agenzia americana della ricerca biomedica avanzata con l'incarico di gestire le emergenze sanitarie, ha mobilitato e coordinato 18 miliardi di dollari. In Europa strutture del genere ce le sogniamo. Basti pensare che l'European Molecular Biology Laboratory (Embl), che fa ricerca di base, non sui farmaci, ha un budget di 300 milioni di euro. La proporzione è eloquente e impone una svolta, la creazione di un'infrastruttura adeguatamente finanziata. Ora sto coordinando a questo scopo, in consultazione con circa cinquanta esperti, uno studio per il Parlamento europeo che dovrebbe essere discusso in settembre o in ottobre. Per Biomed Europa idealmente servirebbe investire ogni anno fino all'uno per mille del Pil della Ue, 14 miliardi di euro, ma si potrebbe partire con un bilancio analogo a quello dell'Agenzia spaziale europea (6,5 miliardi). Possono sembrare somme elevate, ma si consideri che l'Unione oggi destina 50 miliardi all'anno alla politica agricola comune (2021-2027). Pesa troppo il passato, bisogna guardare al futuro.

Che ne pensate dell'opportunità di sospendere i brevetti farmaceutici per i vaccini contro il Covid?

GIUSEPPE REMUZZI — È una questione importante ma limitata, se non la si inserisce nel problema più ampio dell'etica dell'industria farmaceutica, a cui pure vanno riconosciuti meriti enormi, per i quali non saremo mai abbastanza grati. Sui vaccini anti-Covid, come notava Dompé, quello che ha fatto l'industria ha superato ogni più ottimistica aspettativa. Big Pharma però ha come priorità assoluta remunerare gli azionisti e questo non coincide necessariamente con l'esigenza di tutelare la salute della popolazione. È giusto che l'industria abbia un ritorno adeguato per i suoi enormi investimenti, come del resto avviene: BioNTech è passata rapidamente da 27 milioni a oltre due miliardi di ricavi, per non parlare delle quotazioni vertiginose raggiunte da Pfizer. In un contesto simile mi pare opportuna la sospensione dei brevetti sui vaccini, con un risarcimento alle imprese che li detengono, attraverso licenze obbligatorie che permettano di produrli direttamente, come hanno proposto l'India, il Sudafrica e anche il presidente Usa Joe Biden. Ma c'è un altro tema che vorrei sollevare.

Di che si tratta?

GIUSEPPE REMUZZI — Quando, come Istituto «Mario Negri», avviamo uno studio clinico, la trattativa per ottenere il sostegno economico delle industrie è estenuante, nonostante i loro ingenti profitti, e quasi mai arriva a remunerare i costi della ricerca. Ma poi, quando si dimostra che un farmaco è efficace contro una patologia, magari letale, bisogna avviare un altro difficile negoziato per convincere le aziende a concedere la prosecuzione della cura, con quel ritrovato, alle stesse persone sulle quali ne è stato sperimentato l'effetto benefico. Spesso la risposta è negativa. E a me sembra un comportamento inaccettabile. Ci sono farmaci che hanno costi proibitivi e si fa troppo poco per renderli disponibili a chi è privo di mezzi. Non è solo un problema di brevetti: l'industria farmaceutica deve mostrarsi responsabile (in inglese accountable, che è qualcosa di più) nei confronti della società e in particolare dei soggetti più deboli.

SERGIO DOMPÉ — Concordo sulla necessità di intervenire in questo campo con una stretta collaborazione tra pubblico e privato. La questione dei brevetti è secondaria: la loro esistenza non ha ostacolato la produzione di vaccini, che nella seconda metà di quest'anno supererà i sei miliardi di dosi. I problemi derivano semmai dalla necessità di combinare nei processi produttivi tutta una serie di fattori materiali e immateriali che diano le necessarie garanzie: E poi c'è un nodo politico: la fretta dei Paesi ricchi di vaccinare i loro cittadini, che li induce a limitare le esportazioni. Comunque le licenze obbligatorie sono già previste dagli accordi internazionali, nel caso in cui se ne ravvisi la necessità.

Le accuse alle case farmaceutiche sono esagerate?

SERGIO DOMPÉ — II vaccino AstraZeneca costa circa tre euro a dose. Con gli investimenti che ha comportato e la complessità della produzione, un prezzo che copre a malapena i costi. Certo, le cure per alcune malattie molto rare raggiungono somme smisurate. Francesca Pasinelli della Fondazione Telethon ha riferito che una terapia sviluppata da loro come organizzazione non profit, quindi senza alcun ricarico, arriva a un milione e 200 mila euro. E chiaro che affrontare oneri del genere richiede una regia a livello internazionale. Ha ragione Florio quando auspica una strategia con una visione a 20-30 anni. II futuro non si costruisce guardando lo specchietto retrovisore o pensando alle prossime elezioni.

MASSIMO FLORIO — II tema chiave è come si forma la conoscenza. Il world wide web è un'invenzione del Cern, nata per fare dialogare gli scienziati, che non è stata brevettata e ha poi permesso a imprenditori come Jeff Bezos- di accumulare ricchezze immense. Le grandi compagnie tecnologiche dominano i mercati, ma le loro innovazioni si collocano a valle di scoperte non brevettate provenienti dal settore pubblico. Allo stesso modo Moderna utilizza su licenza per il suo vaccino una scoperta compiuta da Nih che riguarda la proteina spike, tramite la quale il virus entra nelle cellule. L'immagine del singolo inventore che brevetta il frutto del suo ingegno è superata. La conoscenza circola come un bene pubblico ed è difficile risalire la catena per attribuire a un soggetto la proprietà intellettuale di un'innovazione.

Chi investe nella ricerca non ha comunque diritto a vedersi garantita una remunerazione?

MASSIMO FLORIO — I brevetti sono una deviazione dal paradigma del libero mercato, attribuiscono un monopolio legale su un'invenzione per vent'anni. II fatto è che nel comparto farmaceutico ne derivano profitti abnormi. Gli studi più autorevoli attribuiscono alle maggiori imprese di questo settore margini di redditività largamente superiori rispetto alle altre aziende che, per le loro dimensioni, si trovano ai primi posti nelle classifiche: alcune fonti calcolano un divario del 24%, altre del 30, altre fino al doppio. Certamente i brevetti sono un incentivo alla ricerca, ma forse bisogna prendere atto che si è esagerato e introdurre correttivi.

Proviamo a tirare le somme.

GIUSEPPE REMUZZI — Una presenza pubblica operativa nel campo sanitario, come quella ipotizzata da Florio, può affiancarsi utilmente all'industria privata. Nel caso del Covid-19 ci sono domande che emergono per un impiego ottimale dei vaccini — in fatto di richiami, tempi delle coperture, ricerca delle associazioni di farmaci più efficaci ai fini della risposta immunitaria — che necessitano di una regia pubblica. Serve un organismo sovranazionale per riunire le migliori competenze.

SERGIO DOMPÉ — La proposta mi trova in sintonia, ma occorre, una gestione fortemente inclusiva verso il comparto privato, che nell'emergenza sanitaria ha ottenuto risultati straordinari. II profitto non va demonizzato, in genere è proporzionale al rischio. La maggioranza dei progetti non dà esito: una sola molecola su diecimila diventa farmaco e per portarla sul mercato occorrono investimenti massicci, in media un miliardo di euro. Non ho nulla contro una presenza più forte del pubblico in campo farmaceutico, ma devo constatare che l'esperienza in materia finora non è stata incoraggiante, perché spesso i finanziamenti vengono assegnati con criteri politici, non di valutazione oggettiva dei progetti. Occorre un salto di qualità per premiare l'eccellenza.

MASSIMO FLORIO — Ringrazio Dompé per il suo approccio da imprenditore, il più adatto a dialogare con i soggetti pubblici. Per non fallire il progetto Biomed Europa deve avere gli stessi standard di eccellenza del Cern e dell'Agenzia spaziale europea. In queste infrastrutture di ricerca la valorizzazione del merito è essenziale. Fabiola Gianotti non potrebbe dirigere il Cern se la comunità scientifica non ne riconoscesse la competenza. E poi bisogna avere uno sguardo lungo. Nel Next Generation Eu per le riconversioni tecnologica e ambientale la commissione di Bruxelles fissa il suo orizzonte al 2050, credo si debba fare lo stesso in campo biomedico.

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