ARIEH WARSHEL IL NOBEL CHE SUSSURRAVA Al COMPUTER
Conversazione con il premio Nobel Arieh Warshel, dall'adolescenza nel kibbutz al matrimonio rivoluzionario tra chimica e supercalcolo, non senza difficoltà, scetticismo e ostilità «Per affrontare sfide come quella rappresentata dall'attuale pandemia abbiamo bisogno di nuove medicine: e per svilupparle servono sia gli studi clinici che le elaborazioni computazionali»
A fine anni 60 capii che era meglio fare domande al computer anziché creare formule complicate
Arieh Warshel, premio Nobel 2013 per la chimica insieme a Martin Karplus e Micheal Levitt, è cresciuto in un kibbutz israeliano in cui condivideva l'alloggio con altri ragazzi, studiando senza troppi vincoli e al tempo stesso lavorando. Nel tempo libero, quando giocava a calcio, gli piaceva stare a centrocampo, collegando difesa e attacco. «L'idea di connettere parti diverse rimase con me anche successivamente», dice oggi ripensando alla propria esperienza di ricerca. Oggi Warshel è distinguished professor di Chimica e Biologia alla University of South California.
Come è nato il suo interesse per la scienza e in particolare per la chimica?
«Da ragazzi non eravamo molto incoraggiati a studiare all'università perché questo sarebbe significato lasciare per sempre il kibbutz. Dopo quattro anni nell'esercito in cui potei mettere da parte un po' di risparmi, fui accettato come studente al Technion (Israel Institute of Technology, Haifa) e scelsi chimica abbastanza casualmente. Cominciai a interessarmi agli enzimi e a capire come funzionano: all'epoca era un enigma e tutt'ora non c'è consenso, anche se io ho il mio personale consenso in cui credo fermamente (ride)... Andai poi al Weizmann Institute e la fortuna volle che proprio in quel periodo si stessero sviluppando i primi computer. Cominciammo a modellizzare piccole molecole al computer e poi riuscimmo a creare un programma per molecole più grandi».
Che anni erano?
«Era il 1966 o il 1967, e in nostro aiuto venne un computer meno potente di un attuale iPhone ma molto sofisticato per l'epoca chiamato "Golem" come la leggendaria creatura della mitologia ebraica. Scoprii che si potevano fare molte domande direttamente al computer anziché creare formule complicate che funzionano bene in alcuni casi, ma non possono funzionare con sistemi complessi come le proteine. A quel punto il computer divenne il mio insegnante. Andammo avanti con questa strategia e uno degli sviluppi fu quello che ci portò poi alla scoperta premiata con il Nobel. Tra il 1976 e il 1978 scoprimmo che potevano fare i nostri calcoli per studiare gli enzimi limitando la meccanica quantistica ad alcune parti e lasciando il resto del sistema in termini di meccanica molecolare (QM/MM, Quantum Mechanics/Molecular Mechanics). In seguito abbiamo ulteriormente sviluppato questo approccio rendendolo sempre più sofisticato e potente».
Come fu accolta dai vostri colleghi questa nuova impostazione?
«Vede, il problema è che chi ha speso tutta la propria vita analizzando un aspetto molto specifico ha difficoltà a vedere il quadro complessivo. Ci fu, e in parte c'è ancora, molta ostilità. Se l'obiettivo è progettare un aeroplano e sei uno specialista di sedili ti focalizzi sulla forma e il materiale dei sedili ma questo non ti dirà mai se l'aereo può volare o no. Così è capitato più di una volta che riviste come Nature abbiano rifiutato i miei articoli, cosa che d'altronde è capitata anche ad altri futuri premi Nobel».
Dunque l'ostilità è venuta dal fatto che si trattava di un cambio di paradigma, anziché uno sviluppo incrementale nel solco della tradizione del settore?
«Proprio così. Potrei parlare per ore dei rifiuti e delle critiche, secondo me ingiuste e talvolta perfino strumentali, al nostro lavoro».
Quando lei e i suoi colleghi avete ricevuto il premio Nobel per la chimica, il titolo scelto dall'Accademia Reale delle Scienze di Svezia per spiegare l'originalità del vostro contributo diceva che avete "portato gli esperimenti nel ciberspazio". È possibile che l'idea di poter ridurre il ruolo degli esperimenti di laboratorio grazie alla computazione sia legata alla diffidenza iniziale verso il vostro lavoro?
«Certamente. Oltre alle resistenze dei teorici, che consideravano l'uso del computer in biochimica una specie di barzelletta, abbiamo certamente incontrato resistenze anche da parte degli sperimentalisti, che vedono il computer come un supporto alle loro interpretazioni sperimentali. L'idea che si possano fare esperimenti al computer, che è accettata ad esempio dai fisici, crea ancora problemi ai biochimici. Quello dell'Accademia Reale di Svezia era un buon titolo comunque!».
Lei presiede il board scientifico dell'iniziativa "Mediate" nata all'interno del consorzio "Exscalate4Cov" (un consorzio europeo pubblico-privato di diciotto istituzioni e aziende da sette Paesi europei, coordinato da Dompè, ndr) per costruire la prima libreria crowdsourcing al mondo di potenziali inibitori della SARS-COV-2. Quali sono secondo lei gli aspetti più innovativi di questo progetto?
«Per affrontare sfide come quella rappresentata dall'attuale pandemia abbiamo bisogno di nuove medicine: per sviluppare queste medicine servono sia gli studi clinici che la chimica computazionale, che permette di studiare e sviluppare farmaci da testare in tempi più rapidi. Lo sviluppo di farmaci sostenuto dalla computazione ha davanti un futuro molto promettente, soprattutto man mano che si sviluppano metodi sempre più efficaci e potenza di calcolo sempre maggiore».