Bottoni rosa
La plancia di comando declinata al femminile è ancora poco scontata: donna e leadership sono parole che non si trovano spesso accostate. Ma qual è la situazione nel settore farmaceutico? Ne parliamo con Eriona Gjinukaj e Amalia Crescenzio di Dompé.
Cosa significa essere una donna manager nel settore farmaceutico? Quali ostacoli bisogna superare per arrivare a sedere nella stanza dei bottoni? E come far valere il proprio ruolo di leader in un mondo ancora molto maschile? Sono domande che a tutt’oggi hanno ancora (purtroppo) un senso: secondo dati Onu del 2018, infatti, le donne percepiscono il 23 per cento in meno degli uomini a parità di ruolo, in linea con le cifre Eurostat (2017) secondo cui la differenza è del 20,7 per cento.
E in Italia? Per capire a che punto siamo nel nostro Paese, chiediamo a due manager di Dompé farmaceutici come Eriona Gjinukaj (Chief Operating Officer) e Amalia Crescenzio (Chief Legal, Ethics and Compliance Officer) di parlarci della loro esperienza.
«L’Italia può vantare un risultato in controtendenza, per quanto riguarda le donne manager», risponde Crescenzio. «Si parla di una differenza positiva del 5 per cento. In altri termini il gender gap rispetto ai manager uomini è del 15 per cento circa. Ciò significa che quando le donne riescono ad arrivare ai vertici ricevono un trattamento economico più vicino a quello dei colleghi, anche se ancora non sempre del tutto equivalente. Tuttavia, dobbiamo poi chiederci quante donne abbiano davvero accesso a queste posizioni».
Per Gjinukaj, infatti, «il problema è il numero di donne che arrivano a sedere nelle stanze dei bottoni. In molti settori la compagine femminile è molto rappresentata, e talvolta è anche maggiore di quella maschile, a livello impiegatizio. Ma la percentuale decresce fortemente salendo nella scala gerarchica delle organizzazioni».
I dati del settore farmaceutico italiano indicano che il 42 per cento circa degli addetti è donna. Non per questioni di quote rosa. Pensate che serva ancora garantire delle cariche alle donne?
EG: Attualmente vi è una norma che impone che nei consigli di amministrazione delle aziende quotate almeno una carica sia rosa. Ritengo sia una cosa molto triste, induce a pensare che l’unica donna presente è stata scelta per obbligo e non per merito. I ruoli di maggior responsabilità dovrebbero essere ricoperti dalle persone con più talento, indipendentemente dal genere. In Dompé possiamo dire che viviamo in un’isola felice: le dirigenti sono circa il 40 per cento. Speriamo che al nostro interno, così come in altre realtà, si riesca ad arrivare al 50.
AC: Anche se i dati a livello nazionale indicano che il 26 per cento delle donne è dirigente, la quota che poi arriva a essere inserita nei management team e nei comitati di direzione diffi cilmente supera il 20 per cento, e spesso si tratta di fi gure in area legal, compliance e regulatory: rarissimi i casi di fi gure legate al business. Il risultato raggiunto in Dompé è stato naturale, la presenza delle donne in ruoli manageriali non è stata imposta, ma è il risultato di un processo basato sulla meritocrazia. Questa è anche la mission dell’associazione che rappresento in Italia, la Hba: garantire le stesse opportunità e possibilità di carriera a prescindere dal genere.
Quali sono le ragioni per cui alle donne non vengono date le medesime opportunità off erte agli uomini?
EG: Nella mia esperienza, al di là di barriere esterne, ciò che fa davvero la differenza è l’autocensura che le donne si impongono. Talvolta, ancora in età molto giovane, entrano nel mondo del lavoro rifiutando occasioni nel timore di non poter soddisfare le aspettative professionali, magari in vista di una futura vita in famiglia con figli. Dobbiamo invece avere maggiore fiducia delle nostre capacità e accettare le sfide che ci vengono offerte partendo dal presupposto che saremo in grado di gestirle. Inoltre resiste un retaggio culturale che ci vede lontanissime da ruoli decisionali in ambito lavorativo, e troppe volte le donne, diversamente dagli uomini, non negoziano il proprio stipendio pensando che sia già una conquista essere riuscite a ricoprire un ruolo di un certo livello.
Essere una manager non comporta dunque necessariamente scegliere tra lavoro e famiglia…
EG: Molte donne che conosco e che ricoprono ruoli di altissimo livello non hanno rinunciato alla famiglia, né hanno rimandato la maternità. Io stessa ho scelto di avere il mio primo figlio a trent’anni e di prendermi un po’ di tempo per accudirlo subito dopo la nascita. Ritengo che i 5 o 6 mesi che una donna dedica alla maternità siano un nonnulla se rapportati alla durata della vita lavorativa. Pensare di dover scegliere tra fi gli e lavoro è un limite che, a mio avviso, le donne si pongono erroneamente. Qualunque azienda che si rispetti sa che se una donna vale, dopo la maternità tornerà al lavoro più realizzata di prima e ancora più motivata.
AC: Il problema della scelta è una delle cosiddette “barriere interne”. Molte donne pensano di dover fare una scelta, spostano la maternità. Quando decidono, temono le ripercussioni sulla propria vita professionale e tendono a rimandare il più possibile la comunicazione al proprio datore di lavoro per paura delle conseguenze. Con l’associazione Hba* cerchiamo di educare le donne a condividere le proprie esperienze per creare consapevolezza ed evitare autolimitazioni.
Esistono differenze nel modo di interpretare la leadership al femminile e al maschile?
AC: È discriminatorio distinguere tra l’approccio al lavoro di uomini e donne. Ognuno ha una sua leadership ed è importante esaltarne le differenze. Alcuni studi, tuttavia, evidenziano che esiste uno stereotipo di leadership maschile molto forte a cui gli uomini stessi sentono l’obbligo di adeguarsi, e al quale le donne immaginano di doversi rifare.
EG: La donna deve essere fiera di essere donna e di avere delle peculiarità che la rendono diversa dall’uomo, che non devono essere annullate. A partire da dettagli, apparentemente banali, come l’abbigliamento: non occorre indossare un tailleur per essere prese sul serio. Serve la consapevolezza che se si entra in una sala riunioni con un ruolo manageriale è perché lo si è meritato, che il tavolo a cui ci si siederà è un tavolo di “pari” e si dovrà essere ascoltate sia che si indossi la gonna o i pantaloni.
È ancora vero che le donne devono dare il doppio per poter competere con gli uomini?
EG: Credo che sia un concetto purtroppo ancora valido in alcune imprese. Ma quando una donna arriva in alto per proprio merito, volenti o nolenti i colleghi non possono fare altro che constatarne le qualità manageriali.
AC: Tante più saranno le donne a ricoprire ruoli apicali, tanto più si riuscirà a cambiare anche questo pregiudizio culturale. Di fatto, nel settore farmaceutico italiano sono molte le donne a guidare le aziende in qualità di presidente, amministratore delegato e general manager.
Pare di capire che sia tempo di andare oltre il femminismo…
AC: Una delle parole chiave della nostra associazione è “awareness”, consapevolezza: le donne devono avere consapevolezza delle proprie possibilità e gli uomini devono essere i primi ambasciatori di questo. Una società aperta che promuove uguali diritti per uomini e donne e che combatte pregiudizi di genere e di qualsiasi altra forma è una società migliore per tutti.
Si dice spesso che dietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna. Vale anche al rovescio?
AC: Mariti, compagni, partner, ma anche famiglie e amici, devono essere i primi sponsor delle donne che lavorano. Non è concepibile immaginare uomini e donne in contrapposizione in questo senso. Ciò che conta è la propria espressione come individuo a tutto tondo e le donne non devono rinunciare a una vita privata soddisfacente per il lavoro o viceversa.
EG: Sicuramente vita privata e lavoro devono riuscire a convivere armoniosamente. Io ho la fortuna di avere un marito e dei figli che non solo mi appoggiano, ma mi danno l’energia di cui ho bisogno per costruire serenamente il percorso professionale che più mi soddisfa.
Quali consigli vi sentite di dare alle giovani donne, manager di domani?
EG: Noi donne siamo spesso perfezioniste e non amiamo sbagliare. Dobbiamo invece imparare ad accettare gli errori, che non sono l’inizio della fi ne ma un nuovo punto di partenza.
AC: Credere in se stesse, sviluppare i propri talenti e sentirsi assolutamente al pari degli uomini. La prima cosa da fare è abbattere le barriere interne, tutti i timori di non potercela fare. E poi aiutare anche le altre, fare squadra. Perché non c’è niente di più bello che vedere altre donne, magari più giovani, riuscire a realizzarsi anche grazie alle nostre esperienze personali.
*Healthcare businesswomen's association (Hba) Organizzazione su scala mondiale composta da persone, aziende e istituzioni pubbliche e private il cui scopo è quello di promuovere il progresso e la presenza delle donne nel settore della salute. La sua mission è favorire la parità di genere nelle posizioni di leadership, facilitare la carriera femminile e le relazioni di interesse lavorativo, fornire supporto pratico alle realtà che intendono valorizzare il potenziale della propria compagine femminile. www.hbanet.org